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Desistenza istanza di fallimento

La dichiarazione di desistenza deve essere qualificata quale rinunzia agli atti del giudizio prefallimentare, con le conseguenze di cui all’art 306 c.p.c., contenente disposizioni dettate in tema di processo di cognizione, ma richiamate dall’art. 629 c.p.c., in quanto compatibili, anche per il processo di esecuzione, ed applicabili quantomeno in via analogica alla materia de qua; quindi, secondo quanto previsto dall’ultimo comma della disposizione citata, il rinunciante deve rimborsare le spese alle altre parti, salva l’ipotesi di diverso accordo tra loro, in assenza del quale, dichiarata l’estinzione del giudizio, deve pronunciarsi condanna del rinunciante alla rifusione delle spese di lite in favore del resistente costituitosi.


Per quanto non contemplato espressamente dalla legge fallimentare (né dalla più moderna legislazione in tema di nuova amministrazione straordinaria), una delle formule più ricorrenti con le quali si conclude il procedimento prefallimentare è rappresentata dal decreto di “non luogo a provvedere” o di “archiviazione” degli atti.

Un decreto di “non luogo a provvedere” è quasi una contraddizione in termini e certo non può essere inteso come non liquet, non esistendo nel nostro ordinamento una sorta di abdicazione dal dovere di giudicare. Ciò nondimeno un decreto con il quale il tribunale dà atto che non vi è luogo a procedere alla dichiarazione di fallimento va sicuramente adottato quando il procedimento è iniziato su sollecitazione officiosa, posto che in questo caso non vi può essere nessuna istanza o nessun ricorso da respingere.

Questa stessa formula viene usualmente adottata quando si vuole chiudere un procedimento che promosso da una parte (creditore o pubblico ministero) nel momento in cui viene trattenuto per la decisione dal collegio non vede più parti contrapposte perché il ricorso è stato ritirato.

Il ritiro del ricorso per fallimento è noto come atto di desistenza, ovverosia quell’atto con il quale, temporaneamente, il creditore abdica al proprio diritto processuale a che la domanda di fallimento venga esaminata nel merito. La desistenza non si presenta come l’atto eguale e contrario alla istanza di fallimento ma più semplicemente come l’atto avente un contenuto meramente processuale di rinuncia alla decisione.

Da questo punto di vista la desistenza appare per certi versi simile alla rinuncia agli atti di cui all’art.306 c.p.c., istituto processuale di diritto comune. Vi sono peraltro anche delle significative differenze fra desistenza e rinuncia agli atti da momento che nel processo di cognizione occorre l’accettazione del convenuto perché il processo si estingua, mentre nel procedimento prefallimentare indipendentemente dal fatto che il debitore accetti la desistenza o pretenda dal giudice una decisione nella quale si accerti l’inesistenza dello stato di insolvenza, il tribunale è comunque tenuto a provvedere nel merito dichiarando il fallimento laddove ritenga che la desistenza non sia affatto idonea a elidere lo stato di decozione, evidentemente desumibile da altri elementi sintomatici.

Poiché esiste l’iniziativa d’ufficio, è evidente come l’esito del procedimento non possa mai essere rimesso alla disponibilità delle parti; il tribunale deve quindi soppesare la desistenza e in assenza di altri indici rivelatori del dissesto (ad esempio altri ricorsi esaminati e respinti in precedenza) può pronunciare un decreto di “non luogo a provvedere” o di “archiviazione” degli atti od altro con formula equivalente. Poiché il più delle volte il ritiro dell’istanza di fallimento non coincide con l’accertamento negativo della sussistenza dello stato di decozione, v’è da chiedersi se queste modalità operative non contraddicano il principio della officiosità del procedimento prefallimentare. E proprio per giustificare la correttezza di un siffatto modo di operare, in letteratura si è di recente avanzata la tesi che l’officiosità possa essere esercitata in concreto solo laddove il dissesto dell’impresa generi allarme sociale, espressione mutuata da una pronuncia del giudice delle leggi in tema assoggettabilità al fallimento del piccolo imprenditore.

Applicando questo “correttivo” al caso dell’accertamento dello stato di insolvenza, si dovrebbe escludere che la desistenza dal ricorso ex art.6 d.lgs. n.270/99 possa comportare un decreto di “non luogo a provvedere”, in quanto il dissesto di una impresa con oltre 200 dipendenti implica, geneticamente, un rilievo sociale così accentuato che il legislatore ha approntato una procedura speciale; ciò significa che la desistenza potrà non condurre alla sentenza dichiarativa soltanto quando il tribunale accerti effettivamente l’insussistenza dell’insolvenza ad ampio spettro.

La Cassazione, in una recentissima sentenza, afferma il principio secondo il quale in caso di rinuncia dell'unico creditore all’istanza presentata, l’abrogazione dell’iniziativa d’ufficio, comporta l’estinzione del procedimento, divenuto a pieno titolo processo di parti (Sentenza n. 4632 del 26 febbraio 2009).